giovedì 6 ottobre 2011

La memoria poetica

Da quando ho letto l'insostenibile leggerezza dell'essere posso dare un nome a certi ricordi. Infatti Kundera parla di una memoria poetica, quella che registra ciò che ci affascina, che ci commuove, che rende bella la nostra vita. Vi racconto una storiella. Ero all'università, a seguire un convegno che un professore ci aveva caldamente consigliato durante le  sue lezioni. C'erano quindi molti miei compagni di corso, alcuni li conoscevo di persona ("eih, ciao come stai? visto che robba 'st'università? pare 'n'ospedale! poi boh, 'sto sole non scalda."), altri di vista- e li riconoscevo- ("ciao..."), altri non li ricordavo pur avendoli visti ("hai visto chi c'è?", "chi, quello?", "eh!", "beh chi è?", "dai, l'avrai visto un milione di volte."). Durante la pausa parlavo con una persona che conoscevo di vista, e che ricordavo. Ad esempio (uno dei tanti che potevo fare), e glielo ricordai, eravamo seduti vicini quando, l'anno prima, avevamo sostenuto insieme un esame scritto, e mi ricordavo anche che mi chiese la risposta di una domanda. Anzi, che io suggerii quella risposta a quella domanda. Non si ricordava di quell'esame, nè di me. Non pensai che la memoria poetica ricorda ciò che ci affascina, che ci commuove. Non pensai che raccontandoglielo mi stavo esponeno. Non avevo alcun motivo per ricordare quell'insignificante evento di così tanto tempo fa. Era normalissimo dimenticarsene e così era successo a lei.

-"oh mio dio, ma come fai a ricordarti queste cose?"
é la memoria poetica. Così avrei dovuto risponderle otto mesi fa.

giovedì 29 settembre 2011

150 anni portati male

- Che studi?

- Il ruolo dei poeti nel Risorgimento.

- Ah-ah...e che facevano? andavano a combatte?

Tanto siamo pure in tema perché è ancora 2011, e quindi ancora centocinquantesimo anniversario dell'unità d'Italia. Perché l'Italia, nonostante tutto, è unita. Ancora.
Okay, ci può stare che i letterati (poeti, scrittori, ma anche studenti di lettere e insegnanti) siano presi poco in considerazione quando si tratta di affrontare problemi pratici, che vanno dall'aggiustare una lampadina a combattere una guerra. Però c'è stato un periodo in cui non è stato così, e non tutti lo sanno. Durante il risorgimento non lo è stato. Molti poeti, ora poco conosciuti a dire il vero, non solo scrivevano poesie patriottiche in cui "urlavano" all'armi all'armi!, ma poi quelle armi le prendevano e andavano a combattere. A parte alcuni casi: come immaginarsi Leopardi alle prese con un fucile mentre combatte contro gli austriaci? Molto più consono immaginarsi le risate ironiche suscitate dai suoi versi: L’armi, qua l’armi: io solo / Combatterò, procomberò sol io. Come insegna Corrado Guzzanti, Leopardi morirà di gobba, non certo combattendo. Per fare qualche esempio, tra i più noti: Ugo Foscolo si arruola nella Guardia Nazionale e poco dopo rimane ferito a Cento, poi è arrestato perché ritenuto spia austriaca, partecipa alla battaglia di Novi, rimane di nuovo ferito nella battaglia per la difesa di Genova; Ippolito Nievo partecipa all'insurrezione di Mantova, alla rivolta di Livorno, partecipa all'impresa dei mille con la nomina di "intendente di prima classe", affondò con la nave che riportava i documenti della spedizione dei mille; Berchet partecipa ai moti insurrezionali del 1821; Goffredo Mameli, da subito (anche perché non ebbe molto tempo) fu seguace di Mazzini, partecipa alle cinque giornate di Milano. Muore in seguito alle ferite riportate nella battaglia per la difesa della repubblica romana, il 6 luglio del 1849. Due mesi dopo avrebbe compiuto ventidue anni.

- Sì, in effetti andavano a combatte.

Ma, a pensarci bene, il ruolo più importante lo ebbero, se così si può dire, nella teoria e non nella pratica (come stereotipo vuole). Con la miriade di inni, poesie, canzoni, che scrissero in tempo reale, durante gli infervorati anni del risorgimento italiano. Quindi forse la risposta più corretta sarebbe:

- Sì, in effetti andavano a combatte. Ma soprattutto scrissero un sacco di poesie.

Un libro molto interessante, sul tema, è quello Alberto Mario Banti: La nazione del risorgimento. Ve lo consiglio.

sabato 24 settembre 2011

Istantanee replicazioni

In esercizi di stile di Raymond Queneau si parla della famosa foto di Bresson. Infatti il pittore Pierre Alechinsky, in occasione di una mostra in cui testi letterari venivano abbinati agli scatti di Bresson, ha avanzato l'ipotesi che la famosa foto ritragga proprio l'autore degli esercizi, Queneau.
Dietro  Gare Saint-Lazar
Questo perché il luogo dove l'uomo, dal cui punto vista sono narrati quasi tutti gli esercizi di stile (la stessa storia "banale" raccontata in novantanove modi), vede per la seconda volta un ragazzo è proprio la stazione di Saint-Lazare. Nel libro è spiegato che la presenza di Queneau nella foto è possibile (era a Parigi al momento dello scatto e il suo studio è vicino alla stazione) ma poco probabile. Quanto quella di essere tu in una foto scattata vicino al tuo posto di lavoro. Comunque questa foto è una delle mie preferite, forse perché è stata anche una delle prime a rimanermi impresse. Probabilmente la vidi da bambino su un libro di fotografie comprato da mio padre. Ricordo che mi colpì, e non mi chiesi perché. E non lo saprei dirlo con certezza neanche ora. Ma ci provo.
Mi piace perché sembra un aggroviglio di coincidenze. Incredibilmente casuale. Perché ogni particolare sembra lì apposta, non c'è nulla di inutile. Si sa che le fotografie immortalano un istante, irripetibile. E questa istantanea ripete  al suo interno l'attimo che non ci sarà più, tramite riflessi naturali e artificiali. Lo specchio d'acqua divide a metà la fotografia, e moltiplica l'immagine. La sagoma dell'uomo che sta correndo è replicata sotto di lui, ma anche sopra, notando il manifesto sullo sfondo che ritrare un'altra figura nella stessa posa dell'uomo (anche il manifesto è replicato dall'acqua). Di manifesti in realtà ce ne sono due, uguali e attaccati (uno vicino all'altro), ma di quello più a destra dei due ne è rimasta metà, l'altra sembra sia stata strappata. C'è un altro manifesto però, anzi altri due, sempre uguali e sempre attaccati (uno sopra all'altro: variazioni sul tema della replica). C'è scritto "RAILOWSKY",  e non "BRAILOWSKY", il pianista in concerto a Parigi: anche una parte di questo manifesto è stata strappata. E così è rimasto RAIL-OW-SKY, ferrovia e cielo. Il cielo sotto cui si svolge l'istante, e sopra al quale è replicato. E la ferrovia: quella scala gettata sull'acqua dalla quale sembra provenire, come un treno in corsa, l'uomo.
Un istante dopo l'uomo sarà atterrato nella pozza, l'immagine replicata nell'acqua si dissolverà. E avrà ragione l'altro uomo, quello sullo sfondo, che dà le spalle all'attimo.

venerdì 23 settembre 2011

Eternamenti

Ieri ho visto una fotografia, scattata un paio di mesi fa. Anzi mi sa due mesi precisi. Nella foto ci sono io, seduto, il corpo è di profilo e il viso guarda nella direzione in cui punta l'obiettivo della macchina fotografica: verso la cartina appesa al muro alla mia sinistra. Sopra il tavolo, davanti a me, c'è il computer, due o tre guide della Croazia, un pacchetto di tabacco, uno di cartine e uno di filtri.
Dicevo: ho visto questa foto ieri al pc, seduto alla scrivania della mia camera. La vacanza che stavo progettando col mio amico è stata consumata, siamo stati nelle città che avevamo segnato con la matita sulla cartina, ora siamo tornati a casa.
Ieri sulla scrivania, oltre al pc, c'era un pacchetto di tabacco, uno di cartine e uno di filtri. Gli stessi, ma altri.
E questo mi ha messo un po' di ansia.

giovedì 22 settembre 2011

Avanti un altro che c'è poco tempo

Cosa dice la protagonista della canzone al suo amato?
L'altro giorno ho visto un programma che si chiama Avanti un altro. È uno di quei programmi dove vengono poste domande di "cultura generale", di cui abbonda la tivì italiana verso le sette di sera. Non mi sono mai piaciuti questi programmi (dove a detta di molti "si imparano un sacco di cose interessanti") per vari motivi. A parte per l'idea di fondo che è sapere qualcosa per vincere soldi (e per le lacrime, le grida, i salti dei concorrenti che riescono nell'impresa).
Innanzitutto la cultura (se così si può chiamare, viste alcune delle domande poste) non è affatto generale, al contrario. Sono domande dettagliate che propongono una cultura dettagliata, frammentaria e quindi incompleta. Se volessi imparare cose interessanti (e dal mio punto di vista, non da quello degli ideatori delle domande della trasmissione) comprerei un libro (dove le informazioni non sono date sotto la forma di risposte, chiuse).
L'impressione è quella di entrare in una mostra allestita con microscopici dettagli dei quadri: il dito della gioconda, un mostriciattolo di un quadro di Bosh, la lampada-bomba della Guernica. Tu giri e sei lì a chiederti dove sia tutto il resto. Non ti fai un'idea se non  a proposito dell'igiene delle unghie della Mona Lisa, della fantasia di Bosh, e dello strano arredamento che doveva aver Picasso in casa sua. Ma, si sa, lo scopo della tv non è fare cultura ma fare soldi.

martedì 20 settembre 2011

fra intendimenti



- Buongiorno...


- Buongiorno!


- Mi dia 'il fatto quotidiano'


- Oggi non esce!


- Non le ho chiesto 'oggi', le ho chiesto il fatto...il giornale!


- Ah, 'il giornale'! Ecco a lei...


- No...non 'il giornale'. Il giornale che si chiama 'il fatto quotidiano'


- Ah, oggi non esce!


- Va beh ho capito...mi dia 'la Repubblica'


- Se vabeh...e chi so', Napolitano?

Aspettare

Parlerei un attimo di attesa. Tipo quando vorresti che ti arrivasse un messaggio che non arriva, e stai lì a guardare il telefono ogni 10 minuti. E quando poi ti arriva un sms il tuo sguardo si illumina. Che poi vai a leggere ed è l'offerta di una macchina da comprare a rate lustrali, o di un sacco di partite di calcio solo per te.
Roland Barthes scriveva così, in Frammenti di un discorso amoroso :
"L’attesa è un incantesimo: io ho avuto l’ordine di non muovermi. L’attesa di una telefonata si va intessendo di una rete di piccoli divieti, all’infinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere occupato l’apparecchio): per la stessa ragione io soffro se qualcuno mi telefona; l’idea di dover uscire tra poco, correndo così il rischio di essere assente al momento dell’eventuale chiamata riconfortante, del ritorno della madre, mi tormenta. Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti per l’attesa, delle impurità d’angoscia, poiché, nella sua purezza, l’angoscia dell’attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata di mano,senza far niente."

Bisognerebbe avvertire Roland che, come diceva non mi ricordo chi, l'unico modo per far accadere una cosa è non aspettarsela. Una frase che non è vera, dal punto di vista della storia. Ma dal punto di vista delle persone sì.
Mi spiego con un esempio:

domenica 11 settembre 2011

io...te...mio...tuo...che differenza fa?

Succede che durante un concerto piuttosto movimentato, sotto al palco, si poghi. Così ti trovi a spingere (ed essere spinto) a destra e a sinistra (anche contemporaneamente), a schivare persone lanciate a tutta velocità, a non riuscire a schivarle, a cadere per terra e farti rialzare dalla prima mano porta verso di te (che poi ti darà una pacca sulla spalla, a significare:"si riparte!"), quindi a fare comunella con un tipo mezzo ubriaco e mezzo brillo che ha deciso di sollevare chicchessia sopra la folla per poi passarlo alle mani alzate più vicine.
Però succede anche che il cellulare riposto nella tasca, nella baraonda generale, salti fuori per depositarsi a terra, là dove molto probabilmente in breve tempo passerà una gran quantità di piedi appartenenti a persone impegnate nelle suddette attività. Se sei fortunato te ne accorgi subito e, per quanto rischioso sia, decidi di abbassarti per cercare, nel buio, di recuperarlo. Un altro ragazzo si è accorto dell'accaduto e comincia ad aiutarti. Uno, in piedi, prova a deviare le persone che si lanciano nella direzione dell'altro, accovacciato a cercare. Poi, visti gli scarsi risultati della caccia, vi accovacciate entrambi, lasciandovi però senza difesa. Tra urla, spintoni e piedi imprevedibili trovi un pezzo del cellulare, poi l'altro, aiutandoti con la luce del tuo cellulare. Poi restituisci i pezzi all'altro ragazzo che ti dà un pacca sulla spalla, a significare: "si riparte!"

mercoledì 7 settembre 2011

La lotteria dei calci di rigori (una bozza pubblicata ora, non so perché)

Io non sono proprio d'accordo coi rigori. Prima era solo una sensazione. Come quando la pensi in un certo modo ma non te ne sei ancora accorto. Poi ci sono stati i mondiali in Sud Africa, nel 2010. C'è stato il quarto di finale Ghana-Uruguay. Succede che all'ultimo secondo dei tempi supplementari stanno pareggiando 1-1. Un gol ora sarebbe esiziale per chi lo subisca. C'è tempo solo per un ultimo attacco ghanese. La palla viene crossata al centro e dopo un batti e ribatti il portieri è fuori dai pali, un ghanese tira di testa e lo supera: la palla sta finendo in porta. Ma fra i pali ci stanno due giocatori uruguayani, uno di loro dà un pugno al pallone e gli impedisce di entrare. Mi viene da dire "era gol", non "sarebbe stato gol". Perché il condizionale non andrebbe bene, anzi non va bene, nel caso in cui la condizione non dovrebbe, non deve, essere presa in considerazione. E un giocatore che prende la palla con la mano sulla linea di porta, sapendo poi di essere espulso, non dovrebbe, non deve esistere.Però lo fa. è un fuorilegge. E infatti viene espulso. Rigore per il ghana.

martedì 6 settembre 2011

vetri

Aspettate un attimo. Due righe giusto per dire che è finita l'estate e tutto sta ricominciando. Sì, certo, lo so che lo sapete già. Sì, so anche che voi sapete che io so che lo sapete. E potremmo andare avanti così all'infinito. Però certe cose è meglio dirle, ne ho sentito il bisogno. Mica posso pubblicare un post così, a settembre, dopo l'ultimo che chissà di quand'era. Avrei potuto, però. Ecco, quel però mi ha fatto scrivere queste quattro righe. Per informarci che è iniziato settembre, che è un po' il lunedì dei mesi. Magari così vi auguro anche un buon inizio settimana. Ché sabato è lontano, circa 8 mesi.
Che poi, durante l'estate decumputerizzata, di post (posts?) me ne sono venuti in mente un po', però. Questo è fresco fresco, tipo di ieri (che non so quanto sia meglio: mi sa che i post sono più come il vino che come il pane. Vanno fatti stagionare. Anche se a pensarci è paradossale. Lasciamo, magari a un altro post, questo discorso,va.)

Mi è capitato un collegamento ipertestuale, e ve lo spiego. Stavo leggendo Due di Due, e in particolare questa frase qua:

sabato 6 agosto 2011

Esaminato

A inizio luglio stavo preparando l'esame di filologia italiana. Fra le altre cose, in programma, c'era tutto l'inferno di Dante. L'unica persona con un po' di tempo e un bel po' di pazienza per ascoltarmi era mia madre. Lei tornava da lavoro nel pomeriggio e sapeva che verso le cinque mi sarei presentato da lei con il libro di Dante, o con lo schema dei canti. Il canto da analizzare lo sceglieva lei, o aprendo a caso l'inferno oppure, soprattutto dopo un po' di tempo dopo (quando il caso sceglieva sempre più spesso canti già letti), leggeva lo schema e con tono quasi pettegolo mi chiedeva di parlare di qualche tipo di peccatore in particolare. Quindi iniziavo a parafrasare e  spiegare e lei ascoltava volentieri, ponendo domande di tanto in tanto. A volte dovevo inseguirla con il libro nelle camere in cui andava, cercavo di intuire se mi stesse ascoltando mentre metteva a posto o cucinava; altre volte, ed ero molto più contento, si sedeva vicino a me e rispondeva al telefono solo per dire "ti richiamo dopo". Così dalle cinque alle sette, per due settimane, c'era la lectio dantis.
Una volta finito di parlare dell'inferno, sudato e appicicoso, andavo in terrazza a fumare. In condominio stavano facendo i lavori, quindi il suo perimetro era circondato di impalcature. C'erano impalcature anche su un lato,quello che sopra ha la soffitta, del mio terrazzo, e di mattina ci camminano gli operai, lasciando qua e là gli oggetti che hanno usato: una scala, una scopa, una bottiglia d'acqua... I vasi che stavano in terrazza ora sono tutti ammucchiati al centro, per lasciar libero il perimetro interno. Quindi, una volta finito di parlare di Dante, sudato e appiccicato, mi sedevo sul pavimento sporco del terrazzo, mi appoggiavo con la schiena sul muro senza intonaco e fumavo una sigaretta. Mia madre intanto aveva iniziato a fare le telefonate che aveva lasciato in sospeso e fra poco uscirà in terrazza, con le mani occupate da qualche oggetto, la spalla che spinge il telefono sull'orecchio, e mi lancerà un'occhiata allo stesso tempo bonaria e di rimprovero perché sto fumando. Certe mamme non accettano che i figli crescano. Io le risponderò "dopo Dante ci vuole". E in effetti, dopo aver parlato per due ore dell'inferno, ci vuole:
sono le sette di metà luglio, non fa troppo caldo o almeno, sudato come sono, quel poco vento che c'è riesce a rinfrescare e lo scenario di impalcature e di oggetti lasciati a riposare in attesa del giorno seguente è complice, e mi conforta. Mi chiedo come sarà quando avrò dato l'esame.
Poi è arrivato il 20 luglio e ho dato l'esame. Poi sono stato 10 giorni in viaggio, un po' in Croazia e un po' in Bosnia.
Ora sono tornato a casa. Mi siedo in terrazza a fumare. Hanno portato via gli oggetti e smontato le impalcature. I vasi sono ancora lì al centro senza più un motivo. Sembra il secondo tempo di un film che era finito già al primo. Senza attori e set, senza luci e suoni giusti. Immaginavo che dopo sarebbe stato così.
E io fumo a salve.

Una volta ho iniziato a spiegare il terzo canto a mia nonna: "allora ci sta Dante che sta per entrare nell'inferno, in cima alla porta ci stanno scritte parole poco rassicuranti infatti. Però c'è Virgilio che lo prende proprio per mano per farlo entrare". "Ma che è 'na barzelletta?" mi ha chiesto mia nonna.

Ci sono rimasto male

Tanto tempo fa, ci rimasi male. Ero in macchina, portato chissà dove da mia madre. Ci rimasi male perché la maggior parte delle cose che vediamo ce le dimentichiamo. Ci rimasi male perché l'edificio della memoria era mal progettato, e piuttosto fatiscente. C'erano delle stanze che, per quanto cercassi, non riuscivi più a trovare. C'erano stanze con porte difettose, e c'erano stanze ingannatrici che conservavano ricordi di cose mai accadute o accadute diversamente.
Ero in macchina con mia madre e ci rimasi male perché  la maggior parte delle cose che vediamo ce le dimentichiamo. Allora decisi di ricordarmi per sempre qualcosa che altrimenti sarebbe scomparso dalla mia vita. Un capriccio lecito per un bambino di otto anni. Ero arrabbiato con la memoria. Come si permetteva di dimenticare? A volte contro la mia volontà per giunta. Che diritto ne aveva? Mi guardai intorno, non troppo intorno in effetti: fissai gli occhi sulla macchina davanti a me. Lessi la sua targa e decisi di ricordarmela, per sempre. Avevo sfidato la memoria.

Mi chiedevo se sarei riuscito a ricordarla davvero. Quante erano state le cose che mi ero promesso, senza mantenere, di ricordare? Quante cose ben più utili avevo dimenticato? Decisi di riportala alla mente ogni tanto, per togliere la polvere dalle lettere e dai numeri che altrimenti sarebbero diventati illegibili. Iniziai a custodirla con cura in qualche camera della memoria.

Ora, però, di quella targa non so che farmene. è già un po' che ho deciso di non spolvelarla più, nella speranza che briciole e pezzi di ricordi che si sgretolano la ricoprano. Così che lo spazzino, passando di tanto in tanto a mettere in ordine, la porti via senza farci caso, la getti sbadatamente nel mucchio della spazzatura. Invece è ancora lì. Come se, al contrario, lo spazzino, obbediente al bambino di otto anni, passi ogni giorno solamente per lei, dia una lustrata a quella targa appesa ben in vista sul muro, mentre ricordi spezzati sono ammucchiati sul letto, altri sono diventati polvere fra le pagine dei libri, tacendo-necessariamente- di quelli portati via attraverso la finestra aperta dal vento, entrato e uscito come il ladro che è stato.

Così quando giro per quel fatiscente edificio in cerca di qualcosa di importante, quando mi chino a terra cercando sotto il tappeto, o salgo su una scala per cercare tra le pagine dei libri, sporcandomi e trovando nient'altro che cenere, briciole e polvere, l'occhio non può fare a meno di cadermi su quella targa, su quei numeri e quelle lettere nere su sfondo bianco. La cera passata dallo spazzino le dà un tocco decisamente pacchiano.

martedì 5 luglio 2011

L'avevo intitolato 'Jane Doe, uccisa da un poliziotto'

L'immaginazione e la realtà sono due cose diverse, e fin qui ci siamo. E uno si può immaginare cose che non avverranno mai o che non esistono, ma anche cose che esistono veramente e che quindi esistono per te due volte: un'immaginazione e una realtà. Quando uno sente legge qualcosa o ne sente parlare, se lo immagina. E, quasi sempre, la realtà si rivela essere una gran fregatura rispetto all'immaginazione. Perché la realtà non la decidi tu. Secondo me quest'affare dell'immaginazione è una può funzionare anche con le persone: meno conosci una persona e più ti piace, perché meno la conosci e più te la immagini. Stavo pensando questo quando mi sono ricordato di un pezzo di Barnum, un libro di Baricco, e di un pezzo che avevo scritto un po' più di tre anni fa su un altro blog. Il pezzo di Baricco è questo

lunedì 4 luglio 2011

Delirio della razionalità

L'altro giorno stavo leggendo ad una persona un pezzo di 'Watt', che è un libro di Samuel Beckett. Più assurdo del teatro dell'assurdo. Talmente razionale da risultare irrazionale. Il pezzo mi è piaciuto moltissimo, ed era questo:

"La casa era immersa nell'oscurità. Avendo trovato la porta principale chiusa a chiave, Watt andò alla porta posteriore. Non avrebbe potuto facilmente suonare, o bussare, dal momento che la casa era immersa nel buio. Avendo trovato la porta posteriore altrettanto chiusa, Watto ritornò alla porta principale. Avendo trovato la porta principale ancora chiusa, Watt ritornò alla porta posteriore. Avendo trovato la porta posteriore stavolta aperta, oh non spalancata, ma chiusa, come suol dirsi, con un semplice lucchetto, Watt fu in grado di entrare in casa. Watt fu sorpreso di trovare ora aperta la porta posteriore, chiusa solo un momento prima. Gli sovvennero per tale caso due spiegazioni. La prima era questa, che la sua competenza di porte chiuse a chiave, così di rado fallace, era risultata tale in quell'occasione, e che la porta posteriore, quando l'aveva trovata chiusa a chiave, in realtà non lo era per niente. E la seconda era questa, che la porta posteriore, quando l'aveva trovata chiusa a chiave, in effetti lo era, ma che era stata aperta in un secondo momento, dall'interno o dall'esterno, da qualcuno, nel mentre che Watt era impegnato ad andare, avanti e indietro, dalla porta posteriore a quella principale, e dalla porta principale a quella posteriore."

A questo punto la persona a cui sto leggendo, che stava ascoltando attentamente dice:
- è la seconda!
Io rimango spiazzato. Mi sarei aspettato qualsiasi commento- "è brutto", "è bello", "l'ha scritto un pazzo", "sei brutto", "sei bello", "sei pazzo", eccetera - ma mai e poi mai un'osservazione "logica". Allora mi è sembrato di stare in un film di Nanni Moretti (in uno tipo Ecce Bombo- "siamo a Roma, non a Milano: "cacare", non "cagare", la "fica", non la "figa", "sta bene" non "sta d'un bene"; o Palombella rossa: "ma come parla?? le parole sono importanti! chi parla male, pensa male, e vive male!"), e mi è venuta voglia di urlare come avrebbe fatto lui: "Perché??? perché la seconda??? come fai a dire che è la seconda?? ma soprattutto perché senti il bisogno di dire che è la seconda??? Non c'entra niente!!!". 

Oltretutto il pezzo finiva così: 
" Di queste due spiegazioni Watt pensò che preferiva l'ultima, in quanto era la più bella."

- Ecco, ti ho detto che era la seconda.

venerdì 1 luglio 2011

Rumori.

è un mondo dannatamente rumoroso questo. Tant'è che stavo provando a dormire e invece non ci riesco, per varie manifestazioni dello stesso motivo: il rumore. La mamma non può fare a meno di urlare al figlio che sporca ogni posto in cui va (due volte per altro, come se lo volesse dire ad ogni orecchia: "dovunque vai sporchi! dovunque vai sporchi!"); i preti, innomediddio, non possono fare a meno di far suonare quelle dannate campane ogni quarto d'ora; la tortora esibisce continuamente le ristrette capacità del suo apparato fonatorio con un  "u uuu u, u uuu u, u uuu u" perpetuo; il vicino è convinto che a tutto il quartiere piaccia sentire la musica che piace a lui e quando piace a lui.
Comunque il rumore più fastidioso è quello dei semafori. Lo so, i semafori non dovrebbero far rumore. Fatto sta che oramai il verde non scatta, suona. Tu sei fermo perché il semaforo è rosso, magari hai pure fretta e aspetti impaziente il verde pronto a partire. Ma uno che suona il clacson appena vede il verde non può mancare. Io, come chiunque abbia una patente di guida (ma anche chi non ce l'ha, insomma tutti), so che quando è verde devo partire, e non parto controvoglia, non ho bisogno di qualcuno che mi sproni a partire. Allora, signore, perché suoni appena scatta il verde? Dimmelo. Vuoi far capire agli altri che ti sei accorto prima di loro? Sei il migliore, e la comunità sarebbe pronta ad ammetterlo, purché tu non suoni più quel dannato clacson. Guidare è stressante perché, oltre alle donne,esistono tizi come te.
Dunque, mentre non riuscivo a dormire ho pensato a come far desistere il signore dal suonare clacson appena vede il verde. Di seguito le mie proposte:

1. Entrare di soppiatto a casa sua durante la notte e acquattarsi vicino al suo letto. Appena suonerà la sua sveglia tirare fuori la trombetta da stadio e farla suonare nel suo orecchio ripetutamente. In seguito dirgli, anche se dubito che oramai riuscirà a sentire qualcosa (quindi scandire in un labiale chiaro) : "hai sentito? è suonata la tua sveglia, devi alzarti!"

2. Entrare con lui in ascensore. Lui arriverà al piano in cui deve scendere. A questo punto sbattere con forza i coperchi delle pentole in prossimità della sua testa, appena le porte cominceranno ad aprirsi, aggiungendo "signore, deve scendere".


Ho smesso di provare a dormire molto presto, quindi non ho elaborato altre proposte.

lunedì 27 giugno 2011

parole sì parole no

A volte mancano le parole per descrivere una situazione. No, non è l'inizio di un post che vuole narrare l'incredibile, anzi l'innefabile. Dico proprio sul serio, a volte non ci stanno le parole. In effetti mi sono espresso male, avrei dovuto meglio dire: a volte manca una parola. Ad esempio non c'è una parola che significhi "mi sono alzato alle sette", e non c'è perché non ce n'e mai stato bisogno. Non intendo dire che non ci sia una persona che in qualche epoca si sia alzata alle sette e che magari abbia sentito la necessità di esprimerlo, anzi. Intendo dire che questa persona, in questo caso, direbbe "mi sono alzato alle sette" senza pensare "cavolo se ci fosse una parola per dire "mi sono alzato alle sette" sarebbe molto meglio". Se fosse stato molto meglio, probabilmente quella parola sarebbe esistita. Perché le lingue sono così: se hanno bisogno di qualcosa ce l'hanno. Molte lingue sono morte perché quello che avevano non bastava più alle persone, perché altre lingue erano più utili o perché le persone a forza di usare le lingue le hanno un po' cambiate, a seconda di come erano più utili.
Comunque in una lingua il verbo è la parola più importante. Tant'è che non esistono lingue senza verbi (a parte il Kēlen, ma solo perché se la sono inventata apposta nel 1980. Non mi risulta che sia insegnata in qualche scuola o che qualcuno che vuole essere preso sul serio la usi). I latini l'avevano capito così bene che "verbum" significava "parola". Senza verbi non solo non si va da nessuna parte, ma non puoi neanche dirlo (puoi dire "tutti là no" o "tutti qui non là", ma non è la stessa cosa, è decisamente peggio). I verbi sono importanti perché ti dicono cosa sta succedendo, e, in questo mondo, succede sempre qualcosa. In qualsiasi momento stai facendo qualcosa. Per riuscire a non fare veramente niente devi morire, e allora non avrai bisogno di parole, né tantomeno di verbi. è per questo che i morti non parlano. Magari ti stai decomponendo, o puzzi, ma questa è una cosa che riguarda i vivi. Anche se sono molto importanti i verbi non ci sono tutti, anzi la maggior parte non esistono. Abbiamo scelto quelli più utili, per esprimere altre cose usiamo un po' più di parole.
Quando sono arrivati i pomodori e le patate dall'America in Europa, nessun europeo ha detto "finalmente sono arrivati i pomodori  e le patate", avrà piuttosto detto "che roba è? come si chiama?". In Itaia qualcuno avrà detto più o meno così "questi gialli [i pomodori tanto tempo fa erano gialli] e a forma di mela potremmo chiamarli pomi d'oro, ma per sbrigarci facciamo pomodoro, e quest'altre gialle...non sembrano niente, come le chiamavano in America? ah batata? vabeh allora noi la chiamiamo patata."; in Francia qualcuno avrà detto più o meno così "dunque queste gialle escono dalla terra e potremmo chiamarle "pomme de terre"...questi altri invece..come li chiamavano in Amrica? ah tomati? allora noi li chiamiamo tomatoe". In Inghilterra non si sono sforzati più di tanto e l'hanno chiamati tomato e potato.
Insomma se non c'è una parola e ne abbiamo bisogno ce la inventiamo oppure la rubiamo a qualche lingua che già ce l'ha. Quelle che non servono non ce le inventiamo, che tanto non ce le ricorderemo mai tutte. Per ricordarsele tutte bisognerebbe essere Funes, che però non è mai esistito veramente. Borges ha scritto la storia di Funes, che era un tale che si ricordava tutto. Poteva ripercorrere con la mente istante per istante la sua vita, non lo faceva perché gli sarebbe occorso tutto il tempo che aveva vissuto fino a quel momento. Funes si stupiva anche che ci fosse una sola parola per indicare un albero illuminato dalla luce di mezzogiorno e lo stesso albero illuminato dalla luce delle sette di sera. è sicuramente vero che quell'albero cambia a seconda della luce che lo illumina, ma Funes non si sarebbe stupito se avesse avuto la memoria degli uomini, che a volte non trovano neanche le parole che esistono.
Tutto questo per dire che l'altro giorno volevo "non scrivere", anzi stavo "non scrivendo", nel senso che mi stavo trattenendo dal farlo. Cioè che l'avrei fatto ma stavo appositamente non facendolo, quindi stavo proprio "non scrivendo". Ma se non ci sono verbi per dire le cose che uno fa (tipo per "lavarsi i denti" non c'è un verbo) figurati se ci sono per le cose che uno non fa.

Fatto sta che ne avevo bisogno.

Forse nel mondo di Funes esisterebbero tutte le parole del mondo (di Funes), quindi infinite parole e nessuno farebbe fatica a ricordarle. Ma poi sarebbero troppe, e sarebbero tutte uguali. Non lascerebbero neanche un piccolissimo spazio all'interpretazione di chi le legge, o chi le ascolta. Troppa definizione. Sarebbe funesto.

lunedì 13 giugno 2011

La gente si è ricordata di vivere in una democrazia

Il quorum è stato raggiunto, mi sono ricordato di avere un blog e quindi scrivo che sono contento.
F

martedì 24 maggio 2011

Avventura di un blogger

Un blogger si sedette sulla sua sedia davanti al computer acceso, convinto a scrivere un nuovo post. Posò le mani sulla tastiera, sospirando. Ma subito si voltò verso sinistra, verso la finestra aperta e si accorse, con comprensibile disappunto, che gli mancava qualcosa di indispensabile per iniziare a scrivere. Eppure, lo avrebbe giurato, era lì fino ad un attimo prima, con lui- dentro di lui, possiamo dire. Che l'avesse smarrita in quel breve istante in cui aveva sospirato? O l'ha persa di vista quando si è voltato verso la finetra-e magari è uscita proprio da lì, dalla finestra aperta? Non sapeva spiegarsi come fosse accaduto, e soprattutto dove fosse finita. Il blogger non si perse d'animo. Superato il disappunto iniziale, si decise a ritrovarla (necessariamente:  non avrebbe potuto scrivere quello che aveva in mente fino a poco prima). Sicuramente era lì da qualche parte, non poteva essersi allontata molto. Si alzò e per prima cosa chiuse la finestra. Si sedette nuovamente, forse sarebbe tornata tra qualche istante, forse addirittura era lì e lui non se ne accorgeva. Per un attimo gli sembrò di vederla e posò subito le mani sulla tastiera. Stavolta non sospirò, ma poco dopo appiattì le labbra su una sensazione di disagio. Si accorse che lì proprio non c'era. E forse, non lo avrebbe giurato ma ora gli sembrava più che probabile, l'aveva persa ancora prima di mettersi a sedere la prima volta. Allora si alzò e andò a cercarla. Dov'era stato? L'aveva lasciata in cucina mentre faceva il caffè? La cercò, fra la polvere e la caffettiera. Forse sul letto mentre leggeva? Fra i cuscini non c'era, e non era neanche nascosta fra le righe del libro che stava leggendo poco prima, di cui rilesse, inutilmente, le ultime pagine. Non l'avrà lasciata in bagno? Sì, forse mentre si faceva la barba (o ancora prima sotto la doccia?). Ecco- si ricordò- l'ultima volta che l'aveva vista nitidamente era proprio sotto la doccia. Vi entrò di nuovo e riaprì l'acqua. Nudo e pulito sotto la doccia che aveva usato da poco, ingobbito con il pollice el'indice della mano destra che incorniciavano il mento, e nessuna traccia di quello che cercava. Eppure prima era lì, nella doccia, di questo ne era sicuro. Almeno quanto lo era del fatto che ora, lì, quello che stava cercando non c'era più. Pensò che, forse, l'aveva persa proprio lavandosi per la prima volta. Ce l'aveva prima di entrare nella doccia e poi se l'era sciacquata via, e ora aveva peggiorato la situazione, facendosi di nuovo la doccia. Si ricordò della finestra, l'aveva chiusa! E se fosse davvero uscita di lì proprio mentre stava per scrivere? Si precipitò ad aprire la finestra. Si affacciò. Neanche a dirlo, non la vide. Accese lo stereo e riascoltò le ultime canzoni (che si fosse nascosta in una di loro?). Note note, niente di nuovo. Rassegnato si buttò sulla sedia, davanti al faccione quadrato del computer. Sospirò. Si guardò di nuovo intorno, a destra e a sinistra,verso la finestra, ma senza la speranza di ritrovare ciò che cercava. Si rese conto che l'idea che aveva per quel post era uscita definitivamente da lui, dalla sua casa e forse dal mondo. Non c'era più e inutile era stato cercarla dappertutto. Quindi posò le mani sulla tastiera, sospirò, e iniziò a scrivere.

lunedì 16 maggio 2011

sguardi randagi

Era mezzanotte passata quando una ragazza,sui vent'anni, chiudeva il garage senza badare al rumore che spargeva nella notte. Il garage era in fondo a una ripida discesa e ora le toccava risalire, stanca com'era, con tutte le borse che aveva. Arrivò in cima, sulla strada, con il fiatone e pensò che la vista dei cassonetti della spazzatura - che ancora non aveva guardato, ma che sapeva essere lì davanti, dall'altra parte della strada- non era la giusta ricompensa. Li guardò come per cercare una conferma. Che non arrivò. Stavolta infatti c'era un gatto, piccolissimo, nascosto per metà dietro uno dei cassonetti. L'altra metà guardava la ragazza, la quale a sua volta fissava metà muso, metà corpo e la zampa del gatto. Per la verità non sembrava che stesse nascondendosi, ma che stesse aspettando qualcuno. Questo almeno pensò la ragazza guardando quel mezzo sguardo lanciato da dietro al cassonetto. Il gatto allora, piegando il collo, fece sporgere tutto il muso, lasciando il resto del corpo per metà nascosto. La ragazza per un attimo pensò che aveva ragione, che quel gatto aspettava in disparte qualcuno che ora era arrivato e che quindi ora rinforzava lo sguardo mostrando entrambi i piccoli occhi come per dire "eccoti finalmente... sono qui, dietro il cassonetto". Per un attimo pensò questo, mentre si riconosceva in quello sguardo. Ma subito si convinse che quello era un gatto randagio, che se si fosse avvicinata sarebbe subito scappato. Superò i cassonetti e si diresse verso casa. Dopo pochi passi si fermò. Il gatto era rimasto lì, aveva solo rialzato il muso, nascondendolo di nuovo per metà. La persona che stava aspettando non era quella ragazza, che se n'era andata, e lui si era rimesso ad aspettare. La ragazza tornò indietro e lo ritrovò lì, con lo stesso sguardo, ad aspettare. Ora era molto vicina al gatto, e si meravigliò che non fosse scappato sentendo dei passi che si avvicinivano. Provò diffidente ad accazzerarlo. Il gatto non si mosse mentre la mano della ragazza si avvicinava, e appena lei toccò il suo muso, il gatto si sdraiò per terra iniziando a giocare con le dita della ragazza, dando piccoli morsi e afferrandole con le zampe. La ragazza, meravigliata, si piegò sulle ginocchia e rimase per un po' a giocare con il gatto alla luce fioca di un lampione che a stento illuminava quella strada deserta, con le borse ancora in spalla, piene di stanchezza, ma con il sorriso sulle labbra. Decise di andare via con la speranza che il gatto la seguisse, almeno per alcuni passi. Si alzò, il gatto rimase per un attimo disorientato, poi si rimise in piedi pure lui e forse guardò la ragazza andarsene. Lei guardò più volte indietro, ricercando quello sguardo che conosceva. Voleva che il gatto la seguisse. Ma tornò a casa, randagia.

giovedì 5 maggio 2011

sottofondo

L'altroieri, alla feltrinelli di Roma sulla via Appia, c'era la presentazione del libro più dvd de 'La pecora nera'. Fra le altre cose si è parlato del fatto che siamo sempre accompagnati da un suono, una musica di sottofondo o anche un semplice ronzio, e a volte neanche ce ne accorgiamo, perché è un rumore costante, e ci facciamo l'abitudine: quanti di noi presenti alla presentazione, per esempio, si sono accorti del rumore del condizionatore della feltrinelli? Eppure, facendoci caso, si sentiva anche quando Celestini ha ricominciato a parlare del suo film. Un suo amico gli ha raccontato che nell'albergo dove alloggiava, a New York, si era accorto che in tutte le sale e i corridoi c'era un ronzio costante. Nelle camere c'era un interretture per regolarne il volume, o spegnerlo. Ma in tutto l'albergo c'era continuamente questo ronzio, che serviva per non far sentire il traffico esterno. Cioè tu senti il ronzio, ti ci abitui e non lo senti più, però intanto il ronzio ha ovattato i clacson e i motori di fuori.
Un paio di anni fa, ero dal dentista. Io avevo finito, mentre mio padre era ancora sulla poltrona del paziente. Quando entrai vidi lui (seduto e con uno specchietto in mano intento a vedere la differenza tra il suo dente nuovo e tutti gli altri), il dentista e l'assistente erano in piedi, vicino alla poltrona. C'era qualcosa di familiare nella stanza, e non mi riferisco a mio papà. Per un attimo stettu in piedi a fissare qualcosa a caso cercando di capire perché quella sala mi faceva pensare a quando andavo a scuola, da piccolo, accompagnato da mia madre. Ci misi un po' per riuscire a sentire che, non so da dove, proveniva a bassissimo volume una canzone che ascoltavo sempre, appena entrato nella macchina di mamma e dopo aver messo la solita cassetta. Era un suono lievissimo, quello che basta per annullare un silenzio che dal dentista non deve esserci. Ci misi un po' a riconoscere 'my name is luka' di Suzanne Vega. In quel momento ascoltavo la canzone e i miei pensieri, mentre le chiacchiere del dentista e dell'assistente erano il sottofondo. Fino a quando la voce dell'assistente non disse il mio nome. L'attenzione si spostò dalla canzone alla sua bocca, che però aveva finito di parlare. Mi era parso di cogliere un tono interrogativo. Ma cosa mi aveva chiesto? Forse vedendomi concentrato, magari fissando mio padre o il dentista o lei stessa senza accorgermene, mi aveva chiesto un parere su qualcosa. Ma su cosa? Cosa dovevo rispondere? Dissi solo: "beh, c'è anche una bella canzone". L'assistente e il dentista mi guardarono perplessi. Forse loro non la stavano ascoltando.

martedì 12 aprile 2011

meritocrazia

L'altra notte, circa sei mesi fa, ho perso il cellulare: mi è caduto dalla tasca mentre correvo in una via vicino casa mia, nella periferia di Roma. Tornato a casa mi dicono che ha chiamato un ragazzo che diceva di aver trovato il mio cellulare per strada. Faccio il mio numero e risponde il ragazzo, con una voce cupa e nasale ma vivace: "l'ho trovato per terra e l'ho preso..io mo' sto a trastevere se vòi venì s' encontramo qua...sennò quanno te pare...me trovi all'alimentari..c'hai presente quello là..eh sì, bravo..quello! domani sto là tutto er giorno". Sono stato fortunato, penso. Non tanto per il valore del cellulare che sarà sulla ventina di euro, ma perchè non mi dovrò abituare a un cellulare nuovo, non dovrò recuperare i numeri e perché trovare uno che trova il tuo cellulare e te lo ridà fa sempre piacere. Il giorno dopo vado in bici all'alimentari pensando a come farò a riconoscerlo e a cosa dovrò dire, ma mi viene in mente solo una battuta ("a me fai mezz' etto di cellulare grazie"). Non so come fare a ritrovare il ragazzo quindi chiedo al primo non cliente dell'alimentari che vedo: il cassiere. "ciao, io ieri sera ho perso il cellu..", "ah, sei te". Rimango un attimo disorientato: dall'arroganza e dal tono della voce, che non era sicuramente quella di ieri sera. In quell'attimo lui tira fuori il mio telefono e lo lascia cadere sul rullo dove si mettono i prodotti da far passare alla cassa. "Sei stato fortunato, eh. La prossima volta devi sta più attento" aggiunge. "Ammazza quanto sei stronzo", penso mentre prendo il cellulare. "Ringrazia da parte mia il ragazzo che l'ha trovato" dico.

domenica 10 aprile 2011

psicometria

Da un po' di tempo quello che mi appartiene del mondo sensibile riguarda le forme geometriche. A partire dal "panorama" visibile dalla finestra di casa: i palazzi sono parallelepipedi perfetti, illuminati dal sole su una sola facctaia che rischiara un lato: dallo spigolo in poi il colore è più scuro; ma più che i palazzi-80% del panorama- mi catturano le decine di parabole sulla loro cima: perfetti cerchi bianchi, ora affascinanti per quanto brutti. Della caffettiera: la base ottagonale, l'imbuto circolare, la testa circolare ai piedi e col cappello di nuovo ottagonale. I quattro cerchi del gas e la simmetria delle fiamme accese. La caffeina (se è lei) che forma -sulla superficie piatta, nera, omogenea, circolare del caffè in tazzina- spirali; del fumo solo quelle. Dei panni appesi la simmetria dovuta alla simmetria del corpo: anche la natura è geometria, dalle pietre al DNA. Non quello che c'è fuori ma i rombi dell'inferriata o i quadrati minuscoli della zanzariera, lì si ferma la mente se la vista procede. Sarà colpa delle lezioni sul formalismo di Fritz Lang. Sarà colpa del mondo non sensibile: fuori tutto è geometria e tutto ha un disegno. Fuori.
L

martedì 5 aprile 2011

change change change

Oggi, cenando, ho visto la pubblicità della linea di biciclette B'Twin. Non avevo mai visto una pubblicità di una bicicletta. "Questo perché quando in Italia arrivava il televisore, la bici passava di moda!" - ha detto mio padre.
Che la tv abbia le ore contate?

lunedì 21 marzo 2011

scarpe

Prima o poi arriva il momento in cui le scarpe devono essere cambiate (arriva per chi non cambia scarpe ogni settimana). Perché non sono più scarpe: sono rotte, scucite, entra l'acqua quando piove, il piede è traballante e ogni passo è una scommessa. è arrivato quel momento e hai comprato queste scarpe , e ora se ne devono andare perché quel momento è tornato. In questo momento provi un odio rasseganto, levigato dall'abitudine e dalla necessità. Eri legato a queste scarpe, come anche a quelle prima e, speri, a quelle che comprerai. Ti ostini a non buttarle ma l'hai già fatto, da quando tornavi a casa con i calzini bagnati sulla punta e sul tallone a causa delle fessure. Comprerai delle scarpe nuove che diventeranno vecchie, cui ti affezionerai e che butterai; per far conoscere altre scarpe ai piedi bagnati.

martedì 15 marzo 2011

Sai che ti dico Homo sapiens?

Ti sta bene morire così!
Hai anche la presunzione di chiamarti sapiens!
Basi la tua sopravvivenza su energie che non riesci a controllare.
Pensi di essere così intelligente da prevedere tutto e da poter costruire centrali nucleari nei luoghi più sismici del pianeta.
Poi quando qualcosa va storto cominci ad avere paura della natura, incertezza per il futuro, e ritorni sui tuoi passi.
Non vedi quanto è patetico preoccuparti della sicurezza della tua centraletta nucleare, quando basta che una sola in tutto il pianeta esploda per causare la tua estinzione?
Pensi che l'atomo si fermi alla dogana, e allora devi proprio estinguerti H. sapiens.

F

sfatalismo

Sto diventando fatalista: c'è un destino predeterminato che decide come vanno le cose, cioè, non è che le decide, le cose vanno così punto, e tu non puoi farci niente. Puoi farci qualcosa, ma il destino già lo sapeva, è per questo che l'hai fatta. A volte sono talmente certo che sto per fare una cosa, che mi permetto di non farla. E succede lo stesso. Fame saziata senza mangiare, sonno recuperato senza dormire. Il fatto, o il fato, è che mi sento sempre più un pezzo degli scacchi, so come muovermi (se sono il pedone mi muovo di un passo in avanti, se voglio far secco qualcuno lo faccio con un passetto in diagonale come uno sgambetto; eccomi alfiere e taglio, per quanta distanza voglio, se mi è concesso dagli avversari, la scacchiera da un angolo all'altro; o eseguo strane traiettorie a L, verticale o orizzontale, se sono un cavallo) ma non sono io a muovermi. è il destino scacchista; e il suo disegno non mi è per niente chiaro. Ma la scacchiera ha tremato e il tavolino si è spostato di 14 cm. E chissà, lo scacchista è caduto dalla sedia. Stavo diventando fatalista.
L

lunedì 14 marzo 2011

I

1. Bisogna avere un lettore immaginario quando si scrive? Chi è il lettore immaginario che ho in mente quando scrivo? è uno e uno solo? è identificabile? sono io? mi scrivo addosso?

2. "A questa terza interpretazione non so se se m'arrischierò a farne seguire una quarta, che s'addirebbe assai bene alla modestia quasi divina di Menard: alla sua rassegnata o ironica abitudine di propagare delle idee che erano l'esatto rovescio di quelle preferite da lui". ( Finzioni di J.L.Borges). Modestia impedisce di trasandare in vanità ed orgoglio. E allora propagando idee contrarie a quelle preferite da lui, il modesto, non preferisce (non porta avanti, non mostra) una persona che non è lui? Non dice qualcosa che lui non direbbe? Non compie gesti che non lo rappresentano? Credo che nel modesto questa abitudine sia rassegnata, involontaria. E dopo il gesto rassegnato, il fastidio, e lo smarrimento: sono io? L'ironico esprime idee contrarie alle sue per rendere in maniera più efficace il suo vero pensiero?


3. Quando si pone una domanda è bene non aspettarsi una risposta.
Sono seduto in macchina, parcheggiato da un po'. La macchina parcheggiata davanti a me sta per uscire: ho avuto tempo di assistere al colloquio fra tre persone che hanno appena finito di parlare, si sono salutate e due di loro sono ora salite in macchina. Una terza macchina (uguale alla mia) mi si accosta. Il suo labiale inequivocabile dice "esci?", il mio, equivocabile, dice "esce quello davanti a me" e il mio indice prova ad aiutare indicando la macchina che ho di fronte. La macchina che mi si era accostata alza la mano come per ringraziare e se ne va. Sono stato scortese?
L

giovedì 10 marzo 2011

Reminiscenze 2

L'altro giorno ero in macchina e pensavo. A quell'ora del primo pomeriggio, su quella strada della periferia di Roma non c'è quasi nessuno e io guidavo con la mente un po' alla strada e un po' per conto suo (ogni tanto pensi senza troppa attenzione: segui il filo dei pensieri e magari sobbalzi scoprendoti ad un considerazione troppo ardita: questa è la mente ''un po' per conto suo''. Ogni tanto guidi senza troppa attenzione :  segui la linea della strada e magari sobbalzi ad una buca che non avevi visto: questa è la mente ''un po' alla strada'').
Insomma guardando allo specchietto retrovisore, quello posto all'interno della macchina al centro del prabrezza, retrovedo - oltre alla strada che ho appena percorso- il lato destro del mio viso. Senza volerlo mi soffermo, forse perché il sole la schiarisce con insistenza, sulla guancia e in particolare sulla linea rossa che le fa compagnia da una dozzina di anni. Questione di un attimo, ma la miccia dei ricordi è stata innescata. Ricordo con precisione quello che è successo quel giorno dell'estate del '98: avevo otto anni e giocavo a pallone nel campetto di un centro estivo. Rincorrevo il pallone che dopo pochi secondi avrebbe battuto inesorabilmente contro la rete che delimitava il campo decretando un'esiziale rimessa laterale per la squadra avversaria. Il piccolo eroe che era in me pensò di impedire a tutti i costi il contatto tra la rete e il pallone, a costo di schiantarsi contro la rete. Il piccole eroe si schiantò, con la guancia, su un pezzo di rete che, liberatosi dalla maglia di rombi che il resto della rete formava e di fatto cessando di essere rete ma diventando un ben più temibile filo appuntito (fil di ferro ricoperto di plastica?), mi graffiò profondamente la guancia. Caddi a terra e il piccolo eroe che era in me, tutt'altro che sopito, chiese "è uscita la palla?". Ricordo anche la corsa al rubinetto per sciacquarmi il viso, i vari "aiha" dei coetanei che mi circondavano, la tardiva consapevolezza che quello non era ''un graffietto'', il ghiacciolo che mi diedero al bar del centro estivo (un liuk, "neanche me lo posso mangiare dopo,non mi piace" pensai) da mettere sulla guancia fino all'ospedale, e i 4 punti che mi misero. Non ricordo nessun altra partita a quel campetto.
La cicatrice sulla guancia mi collega a quella sulla sopracciglio. Anche in questo caso ricordo tutto. Il punto della piscina in cui ero, il mio braccio sinistro che si allungava a strattonare il costume dell'avversario, il rumore secco, subacqueo, dell'urto tra il gomito dell'avversario e il mio sopracciglio. Lo stordimento, lo stupore sul volto dei miei compagni di squadra, le scuse dell'avversario. E anche qui la corsa all'ospedale. Sei punti.
Guidando con la mente un po' alla strada e un po' per conto suo penso che se dovessi immaginare la memoria, me la immaginerei come un insieme di segni. Che ogni ricordo è una cicatrice.
E sobbalzo: una buca.
L

mercoledì 9 marzo 2011

Reminiscenze


La reminiscenza può essere:
  • "Facoltà di richiamare alla memoria cose vedute o apprese;"
  • Nella filosofia platonica, il termine è collegato all'anamnesi.
  • Nella finzione cinematografica, l'assorbimento di energia di un essere appena ucciso, nel film Highlander - l'ultimo immortale (hahahah! mi sa che questo film non lo vedrò mai, soprattutto dopo questa cosa)
Da Wiki...

Ricordi che non sapevi di avere. Talmente lontani da non essersi mai presentati alla tua mente come tali, ma solamente come sensazioni momentanee, legate oramai ad un tempo passato. Mi capitano spesso ultimamente.
Serve sempre una chiave però, qualcosa che sia ora ed allo stesso tempo era allora, ed allo stesso modo.
Qualcosa di eterno insomma. Anche se nulla è eterno. In relazione alla vita media di un uomo però, ci sono molte cose che, a ragione veduta, possono considerarsi eterne. Penserete alle montagne, ai pianeti o alle stelle. Vero. 
Più banalmente io pensavo alla plastica. Un cd, se ben tenuto, vivrà molto più di voi. Avrete la possibilità di sentire la sua musica fino alla vostra morte! 
Ragionando su questo mezzo di trasporto spaziotemporale a disposizione della musica, arrivo a ciò che è successo l'altro giorno.
Guidando ascoltavo un album dei Grateful Dead "Rocking the Cradle" (Egypt 1978), un concerto registrato ai piedi delle piramidi (*). La loro musica (era Jack Straw la canzone in questo caso) è collegata ai miei ricordi, in particolare ai viaggi in Espace (una vettura prodotta dall'84 dalla Renault, anzi penso proprio che fosse quella dell'84). Queste traversate di poche ore, che ad un bambino abituato a muoversi e giocare sembrano interminabili, avevano una colonna sonora scandita dalle canzoni di questo ed altri complessi, padroni della scena psichedelica del rock anni '60 e '70. Ascoltavo queste audio cassette sprofondando nel sedile posteriore di questa enorme macchina, osservando dal vetro le veloci cime delle montagne, che sotto un cielo immobile, correvano da un'estremità all'altra del finestrino; la musica mi cullava fino ad addormentarmi, nutrendo i miei sogni.
I bambini guardano sempre al cielo. Questo mi è venuto in mente immaginandomi con gli occhi rivolti al finestrino. Se hanno bisogno di guardare un loro genitore, parente o qualsiasi altro adulto devono alzare lo sguardo; per raggiungere gli oggetti pericolosi con cui vorrebbero giocare devono salire. Tutto il mondo non è alla loro misura, c'è sempre qualcosa di più interessante del terreno da dover osservare. Faranno in tempo a scordarselo da grandi, imparando a vivere nel contingente, reale, materiale e palloso mondo di tutti i giorni. La loro punizione per essersi dimenticati il cielo saranno i problemi della vita, che cominceranno a gravare piano piano sulle loro schiene, piegandoli verso la terra. Tutto perché sono ancora bambini, ma se lo sono scordati.
Hanno preferito pensarsi adulti, abbassare lo sguardo e sognare sempre meno. 
Questa riflessione mi intristisce un po', visto che spesso anche io dimentico di guardare al cielo in senso metaforico ma anche letterale, oppure, alzando lo sguardo, vedo la notte stuprata dalle luci della città e le stelle impallidire difronte a tanta stupidità.
Cerchiamo di andare avanti passando per un'altra reminiscenza, il "cadavere dell'essere appena ucciso" di cui mi sono nutrito è la carcassa di un viaggio, rievocata da "Thunder road" del buon vecchio Bruce Springsteen. In particolare della traversata della Spagna, da Bilbao a Malaga, in una notte e qualche ora del giorno seguente. 
"Like a vision she dancing across the porch, as the radio play. Roy Orbison singing for the lonely. Ehy that's me and I want you only!" 
Questi versi ci accompagnavano durante il viaggio, percorrendo con noi le strade notturne, dove le luci dei corrieri che sfrecciavano sulla corsia di sorpasso erano l'unica testimonianza umana. 
La strada a due corsie incide le sierre per tutta la lunghezza della penisola; il camper la percorre inesorabile; la stanchezza è stata scaricata all'ultima pompa di benzina e i riccioli di fumo salgono dalla sigaretta per perdersi nell'oscurità appena fuori dal finestrino aperto. Tutto sembra stato creato per farti provare il gusto di quel momento e ogni cosa sembra giusta così com'è. 
Ricordi del genere uniti alla bellezza di una canzone così, sono gli ingredienti sufficienti a farmi provare quella rara sensazione che chiamerò "pelle d'oca musicale" (la chiamo pelle d'oca musicale perché i ricordi sono sufficienti ma non necessari, almeno per me).
"These two lanes will take us anywhere. We got one last chance to make it real, to trade in these wings on some wheels."

(*)Finisco con l'asterisco: quanto è strano il destino degli edifici!

F

lunedì 7 marzo 2011

disagi

Eravamo in pausa. Il quarto d’ora accademico passato sulle scale antincendio: il pezzo di cielo nudo più vicino all’aula. Il sole che se ne sta andando dalla facoltà, trattenuto fino a quell’ora soltanto dalla primavera, illumina chissà da dove un cielo che sbadiglia. Tu sei lì, con i gomiti poggiati sulla ringhiera del terzo piano a fumare, guardando giù verso il prato che sembra stanco anche lui; sarà più verde domattina. Il tuo sguardo sembra seguire il filo dei tuoi pensieri o la traiettoria disegnata dalla cenere della sigaretta che cade giù verso l’erba fresca. Il grigio e il verde non stanno male insieme. Ti sei accorto della presenza di una tua compagna di corso accanto a te e non sai se parlarle o no. Tu poi non sei uno tipo risoluto, e nell’indecisione lasci sempre che i fatti si susseguano come se tu non esistessi . Lei si aspetta che tu le dica qualcosa o neanche si ricorda di averti visto a lezione? Perché dovrei dirle qualcosa io e non lei? Perché ha scelto di mettersi così vicino a me? Lei sta pensando le stesse cose che penso io non si è neanche accorta della mia presenza?

-Che orario, eh? Tu non fumi? Ah scusa, ti da fastidio il fumo? In realtà neanche io  dovrei  fumare. Pensa che ho letto su internet che ‘’ai pazienti come noi è sconsigliato perfino di stare vicino a un fumatore’’. Ma chi se ne importa…

Le diresti questo, ma guardi la cenere che cade giù.
L

sabato 5 marzo 2011

Pronti per cominciare


Ogni volta succede la stessa cosa. Ho infilato la chiave nella serratura, tirato leggermente la porta verso di me, girato la chiave, spinto la porta, sfilato la chiave, aperto la porta e richiuso la porta dietro di me con la mano aperta del braccio sinistro. Sospiro, al buio della casa, magari con la borsa della pallanuoto su una spalla e quella dell’università sull’altra; le lascio cadere a terra. Sospiro benché non sia accaduto niente durante la giornata di diverso da ciò che mi aspettavo. O forse proprio per questo. Accenderò il computer, prima di fare le altre cose. Perché gli ci vuole del tempo,per avviarsi. Il tempo che gli ci vuole lo impiegherò facendo le altre cose. Le altre cose sono viziarmi: fare il caffè, e una sigaretta. La meccanicità dei gesti che sto per compiere mi piace, mi tranquillizza. È accompagnata da rumori secchi, netti: sto per compiere una serie di gesti che porterà una serie di cose da uno stato ad un altro. Nel primo stato le suddette cose sono situate in alto (sopra l’altezza della mia testa) e non sono visibili (sono dietro ante di legno). Nel secondo stato si troveranno all’altezza della mia pancia (sul ripiano della cucina) e saranno visibili. Apro lo sportello della credenza (tum)  sopra al lavandino, tiro giù i vari pezzi della caffettiera: poggio la caldaia (tuc)  su quella specie di sparti-lavandino che separa le due vasche mentre il serbatoio e il brico (con annessi filtro e guarnizione di gomma)  sul ripiano accanto (tin, tuc).  Apro la credenza (tum), tiro giù il barattolo del caffè (tunc) e quello dello zucchero (tunc) chiudo lo sportello (stonc). Riempio la caldaia con la giusta quantità d’acqua e il serbatoio con la stessa di polvere di caffè.
Le cartine, i filtri e il tabacco sono nella borsa dell’università. La prendo e, con il caffè nell’altra mano, la porto in camera, dove il computer si è ora svegliato completamente. Lecco la cartina e avvolgo. Caffè da una parte, sigaretta dall’altra.
Ora posso cominciare a scrivere,ora posso far accadere qualsiasi cosa,  che è il vizio più grande.
L

mercoledì 2 marzo 2011

Gustare il precaffè.

Girare la manopola del rubinetto. All’inizio sarà un po’ dura ma poi ruoterà fluidamente. L’acqua inizierà a decorrere. Intrappolare la giusta quantità d’acqua nella caldaia. Per accertarsi che la quantità d'acqua sia quella giusta (prerogativa necessaria per la riuscita di un buon caffè) occorre stabilire un contatto visivo con la valvola di sicurezza, dall’interno della caldaia. Fare attenzione a stabilirlo proprio con l'interno della caldaia, giacché -sebbene sia più semplice vedere la valvola di sicurezza al di fuori della caldaia- l’acqua del rubinetto deve essere depositata all’interno della caldaia, e la giusta quantità è quella che arriva proprio al livello della valvola di sicurezza. Per stabilire suddetto contatto è necessario, quasi sempre, abbassare la testa e aguzzare la vista dal momento che la caldaia risulta essere poco illuminata e quindi la valvola difficilmente individuabile. Una volta terminata questa operazione notare come il serbatoio, a forma di imbuto, si incastrerà perfettamente sopra la caldaia. Riempirlo con la polvere di caffè in modo delicato ed omogeneo fino a crearne un accumulo che sporgerà modestamente sopra il livello del serbatoio. Non pressare la polvere di caffè. Il brico, che raccoglierà la bevanda, si incastrerà non senza apprensione con la caldaia e le due parti saranno serrate. Collocare la caffettiera sul fornello del gas con fiere aspettative e accendere la fiamma senza alcun risentimento.
L

lunedì 28 febbraio 2011

Addii

e se il giorno e la notte si separassero definitivamente? Non più giorno e notte, ma giorno o notte. Non rimpiangereste l'alba e il tramonto? Non pensereste continuamente di essere intrappolati dalla parte sbagliata?
L

Occhiali

Ieri sera, leggendo la sua avventura, mi sono immedesimato in Amilcare Carruga. Se vi interessa un riassunto del racconto leggete fra le parentesi quadre.

[Amilcare Carruga : “ancor giovane, non sprovvisto di risorse, senza esagerate ambizioni materiali o spirituali: nulla gli impediva, dunque, di godere la vita”. Ma soprattutto miope. Da un po’ di tempo non si godeva più la vita: i film al cinema, le ragazze in strada... tutto gli appariva scialbo.  Si accorse che il problema non era di natura psicologica ma oculistica: era miope. Con un paio di occhiali tutto avrebbe riacquistato la vividezza di quando era in grado di godersi la vita. E la riacquistò, ma lui era diventato “uno con gli occhiali”: uno che per chi non lo conosce diventa “quello con gli occhiali”. Per primi se ne prese un paio di quelli che non si notano, da lontano si sarebbe detto che non li avesse. Ma allora era come se fossero parte di lui, quegli occhiali che fino al giorno prima non aveva mai portato, quegli occhiali che erano tutto tranne che parte di lui. Gli entrarono subito in odio e quindi non tardarono a rompersi. Optò allora per una montatura esageratamente appariscente. Ora gli occhiali erano davvero qualcosa che non era lui e che non poteva farne parte. Ma ora chi avrebbe detto che dietro quella maschera di plastica nera c’era proprio Amilcare Carruga? Tornò nella sua città natale, una piccola cittadina dell’Italia settentrionale dove tutti, di vista, si conoscono e dove si usa, di sera, passeggiare per la via principale. Camminò per quella via riconoscendo e salutando moltissimi visi che se ricambiavano il saluto era solo per un riflesso incondizionato, non certo perché avevano riconosciuto Amilcare Carruga, che mancava da quella città da chissà quanti anni, dietro quell’impalcatura che si era poggiato sul naso.  Decise di continuare a passeggiare senza gli occhiali e allora sì che qualcuno (ma chi?) lo salutava (salutava davvero lui?). Non distingueva che sagome. Con gli occhiali lui non era lui, senza occhiali gli altri non erano gli altri. Continuò per il corso fino ad arrivare in un posto appartato, dove si usava andare con le “ragazze a braccetto, chi aveva una ragazza, oppure se si era soli ci si andava per stare più soli, a sedersi su una panca e a sentir cantare i grilli. C’era la panca, il fosso, i grilli, come prima. Amilcare Carruga si sedette. Gli occhiali, a metterseli o a toglierseli, lì era proprio lo stesso. Amilcare Carruga capiva che forse quell’esaltazione degli occhiali nuovi era stata l’ultima della sua vita, e adesso era finita.” Avventura di un miope ne ‘Gli amori difficili’ di Italo Calvino.]

All’inizio mi infastidisce immedesimarmi nei personaggi -(anche se oramai con Calvino sono abituato)- perché penso, senza pensarci davvero, “cavolo! Avrei potuto scriverlo io”. Poi penso davvero: mi accorgo di non aver scritto proprio niente in vita mia, e di non averci neanche provato. Quindi no, non avrei potuto scriverlo io. Semmai avrei voluto scriverlo io. E continuo a leggere. Ogni tanto penso “già, avrei fatto proprio così” oppure “no..non è proprio da me”, magari non lo penso ma lo so mentre leggo, e la lettura è più gustosa.
Non ci vedo male, posso stare senza occhiali senza causare danni a cose o persone. Non è detto però che sappia a cosa o a chi non causo danni. Ho saltato, a differenza di Amilcare, il passaggio degli occhiali poco visibili. Me li avevano consigliati (“non hai mai portato gli occhiali! Così cambi il meno possibile. Prendi degli occhiali che neanche si vedono, se ce li hai o no non se ne accorge nessuno”). Non ero convinto, e non li presi. Degli occhiali che ci sono e non si vedono. In generale mi puzza l’idea qualcosa che c’è ma non si vede. E se invece dell’idea è proprio l’oggetto ad esserci, e per di più sopra il mio naso, allora la puzza è insopportabile. Sì, magari da lontano sarei rimasto uno senza occhiali, ma da vicino sarei stato non solo uno con gli occhiali ma , come Carruga, uno con quegli occhiali che non si notano ma che fanno pensare che ce li abbia sempre avuti, un veterano degli occhiali. Uno con gli occhiali che fanno parte di me. E io non sono mai stato uno con gli occhiali. Non li ho presi. Ho optato subito per una montatura vistosa, di plastica nera (“alla woody allen” mi hanno detto. Non sono tondeggianti come quelli di Woody, ma la quantità di plastica è simile). Io sono io e sopra il mio naso ci sono degli occhiali, che sono degli occhiali. All’inizio ero entusiasta, proprio come Carruga, della vividezza delle immagini. Insegne dei negozi, nomi delle vie sui cartelli, riflessi della luce sulla carrozzeria della macchine. Spesso alzavo sopra gli occhi e riabbassavo sugli occhi le lenti, apprezzando la vistosa differenza.                                                                         
Ma farmi vedere con gli occhiali da persone che non conoscevo o conoscevo appena mi metteva a disagio. A chi mi vedeva per la prima volta sarebbe rimasta nella mente la mia immagine di uno con gli occhiali, magari neanche il mio nome. E chi già mi conosceva mi diceva che con quegli occhiali non sembravo più io, erano troppo appariscenti: il mio viso era troppo dietro gli occhiali. Presi a portare sempre meno gli occhiali, almeno in compagnia di altre persone.                                                                      
Così ora metto gli occhiali per lo più quando sono da solo. Quando guido (e ancora mi alletta l’idea di leggere le targhe di macchine che si allontanano, fare confronti tra scritte a distanze diverse: quella la leggo bene, oh anche senza occhiali! Quella laggiù però non la distinguo, senza occhiali però non riconoscerei neanche il cartello, se non sapessi già della sua esistenza, della sua esatta posizione e persino del suo graffio sulla lettere F). Mi affretto a toglierli però quando riconosco qualcuno che passeggia sul marciapiede, che potrebbe vedermi. Col quale magari incrocerò lo sguardo e accennerò ad un saluto come se lo avessi appena visto anche io, senza occhiali. Subito dopo rinforco gli occhiali e proseguo.
Così ora porto gli occhiali sempre nella borsa a tracolla, nella loro custodia, indossandoli occasionalmente, per pochi attimi. Alla fermata dell’autobus, proprio come Carruga, quando intravedo il lontananza un autobus senza riuscire a distinguerne il numero e meravigliandomi ogni volta di quanto nitide appaiano le lettere e i numeri se viste da dietro le lenti. Quando non riesco a leggere il nome sbiadito sul cartello della via che lì infondo gira a destra, che magari è quella in cui sono diretto. Quando mi pare di riconoscere qualcuno che viene incontro a me o che sta salendo sul tram, che incrocia il mio sguardo nudo, e non so se accennare un saluto.
L

domenica 27 febbraio 2011

Bird Watching

Osservazioni ornitologiche dalla finestra della mia camera:
Pare che il gabbiano comune (Larus ridibundus, Linneo 1766) e il gabbiano reale zampe gialle (Larus michahellis, Naumann 1840) si siano equamente "divisi il territorio". Individui della prima specie sono più attivi durante il giorno; L. michahellis (anche detto gabbiano reale del mediterraneo) è invece più attivo di notte.
Gli individui di questa specie sono sempre più abbondanti nell'entroterra italiano, soprattutto nelle grandi città e in prossimità di discariche; alcuni di loro non si limitano a svernare nei centri urbani ma cominciano anche a nidificare sui tetti. Per questo motivo durante le mattinate estive, se vivete in una grande città, il loro forte richiamo potrebbe causarvi un pessimo risveglio.

A proposito del gabbiano comune: ieri ho intravisto una sagoma che poteva rassomigliare ad un individuo di questa specie, ma con il capo completamente nero, come se fosse in abito riproduttivo. Non sarà presto per accoppiarsi vecchio sporcaccione?

Larus ridibundus in abito invernale


















Larus ridibundus in abito estivo/riproduttivo


















F

venerdì 25 febbraio 2011

Le buone maniere prima di tutto

Le buone maniere non sono mettere la mano davanti alla bocca quando si sbadiglia, non dire "salute" quando qualcuno starnutisce o iniziare dalla posata più esterna qualora a tavola ce ne fosse più di una. Quelle non sono buone maniere, sono cazzate. Le buone maniere sono piuttosto raccogliere la cacca del tuo cane, non suonare il clacson come se l'Italia stesse continaumente vincendo il mondiale di calcio, non essere Sgarbi, ma soprattutto avere un buon motivo per cui si fanno le cose. Non ci crederete ma quest'ultima cosa è quella più trascurata. Esatto, sono più le persone che fanno le cose senza un buon motivo di quelle che non sono Vittorio Sgarbi. Vi sarete accorti, entrando nel blog, che questo blog esiste. Molto probabilmente non vi siete chiesti perchè esiste, questo perchè non siete abituati alle buone maniere. Ma io -uomo di buone maniere che tenta di insegnarvele- vi spiego lo stesso il motivo. Sapete statisticamente quanti blog nascono ogni giorno? Tanti. Qualcuno dovrà pure farsi carico del gravoso impegno di aprire un blog.
L